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Live Aid, il giorno in cui il mondo si fermò ad ascoltare

Live Aid

Il 13 luglio 1985 settanta artisti diedero vita ad un concerto che fu esperienza collettiva per un’intera generazione. Quel concerto era il Live Aid, e anche se non lo abbiamo vissuto di persona, ci piace pensare un po’ di conoscerlo. E vogliamo ricordarlo così.


Il Live Aid è stato un sogno

Questa è la storia di un grande sogno. Il sogno di un giovane cantante irlandese impegnato nella lotta alla povertà. Ma è anche il sogno di una generazione, di più, di un’epoca. Un’epoca in cui un’aurea di ottimismo verso il proprio radioso futuro, e di pietà verso il tragico che la circonda, investe l’ovest del mondo.

Una formidabile crescita economica pompa sogni di grandezza a New York e a Londra. Sono gli anni di Reagan, gli anni degli yuppies e dei primi, embrionali, movimenti no global. Le culture giovanili qua e là dell’Atlantico ascoltano le canzoni di ribelli sud americani e leggono American Psycho sognando un appartamento sull’ottantunesima strada, magari senza l’alienazione in omaggio. Sono gli anni in cui si scopre l’eroina e si riconquistano le Falkland. A Berlino il muro è ancora in piedi, ma si iniziano a sentirne i primi scricchiolii, amplificati dal borbottio dei motori diesel dei cingolati sovietici impantanati in Afghanistan. Il dottor Stranamore non è più di moda, e aspettando il nuovo millennio sempre più vicino si cercano nuovi orizzonti verso cui posare lo sguardo.

Si riscopre l’Africa, non quella accusatrice della decolonizzazione, nemmeno quella violenta e corrotta dei signori della guerra appoggiati ad intermittenza dalla CIA o dal KGB. Si riscopre l’Africa della fame, quella dei bambini con i ventri gonfi. Guardandola nei programmi del mattino, e guardando sé stessi, ci si scopre umanitari.

In questo cocktail di culture e sensibilità, camminando in bilico sulla linea di faglia di due epoche che stanno per passarsi il testimone, l’irlandese Bob Geldof nel 1984 chiama al telefono l’amico Midge Ure, chitarrista e cantante degli Ultravox. Negli anni ’70 Bob era stato spesso, con il suo gruppo Boomtown Rats, in cima alle classifiche inglesi. Con il passare del tempo, tuttavia, si avvicina sempre di più a varie cause umanitarie, in particolare per il contrasto alla fame ed alle malattie in Africa. Quando alza la cornetta per parlare con Midge, una carestia, come non se ne vedevano da parecchio, stava falciando il corno d’Africa: in Etiopia i morti erano centinaia di migliaia. Bob convince Midge a realizzare una canzone natalizia per raccogliere fondi da destinare alle popolazioni colpite dalla fame.

Insieme mettono in piedi un gruppo, Band Aid, con altri colleghi di punta della scena musicale inglese. Nel novembre 1984 si ritrovarono tutti ai Sarm West Studios di Notting Hill per registrare il pezzo. Basta un solo giorno, poi Do They Know It’s Christmas? vede la luce. Il successo nel mercato inglese è clamoroso: in una settimana se ne comprano un milione di copie e diventa il pezzo più velocemente venduto nella storia del Regno Unito, battuto solo tredici anni dopo da Candle in the wind 1997 di Elton John. L’obbiettivo di Bob e Midge era raccogliere almeno 70 mila sterline per l’Etiopia, in un anno ne raccolgono 8 milioni.

La storia si sarebbe potuta concludere qui, con un bel finale. Ma, l’abbiamo detto, sono gli anni ottanta: il limite è il cielo. Bob e Midge restano estasiati dal successo dell’iniziativa, e pensano a come fare qualcosa di ancora più grande, a come raccogliere ancora più fondi. Si sogna di fare qualcosa mai visto prima.

Il Live Aid è vivo

Flash forward. È il 13 luglio 1985. In otto mesi, Dio solo sa come, il Wembley Stadium di Londra ed il J. F. Kennedy Stadium di Filadelfia ospitano rispettivamente 72 mila e 90 mila spettatori. È il Live Aid, il più grande concerto della Storia. Due palchi, sui due lati dell’Atlantico, collegati in diretta via satellite. Circa due miliardi (due miliardi!) di telespettatori, 70 partecipanti (tra gruppi e singoli), 16 ore di musica per far conoscere al mondo la tragedia africana. Tra i partecipanti B. B. King, Bob Dylan, i Beach Boys, i Queen, i Black Sabbath, Tina Turner, gli U2, David Bowie, Sting, Mick Jagger, i The Who, Santana, Elton John, Madonna, Paul McCartney. Non si era mai vista una cosa del genere. Il Live Aid viene subito ribattezzato il jukebox globale.

Lo spettacolo dovrebbe essere il più grande possibile. Dobbiamo collegare Wembley al Madison Square Garden e trasmettere l’intero spettacolo su tutti i televisori del mondo. Non è un’idea impossibile, è sicuramente un’idea che vale la pena esplorare. (Bob Geldof)

Era un’idea che valeva la pena esplorare. Alle 12:00 gli Status Quo salgono sul palco di Wembley: si comincia. Due ore dopo Bernard Watson, al JFK, apre le danze anche negli states. È un susseguirsi di leggende della musica, i tempi sono strettissimi e non si contano gli incovenienti. Microfoni che non funzionano, chitarre a cui salta una corda, problemi con l’audio: non importa nulla, the show must go on.

A proposito di the show must go on. Alle 18:40 salgono sul palco di Wembley i comici Mel Smith e Griff Rhys Jones vestiti da bobby londinesi. È una scena surreale, qualcuno tra il pubblico li riconosce, la maggior parte non ha idea di chi siano. Mel prende il microfono incustodito e, visibilmente emozionato, si rivolge alle settanta mila persone che ha di fronte: “I’m sorry to interrupt, but we have had a bit of a complaint about the noise…” dalla folla arrivano urla, ma Mel continua “…from a woman, in Belgium”. È un tripudio di risate che attraversa il mondo. A quel punto Griff si mette sull’attenti e con tono marziale chiama sul palco “Her Majesty, the Queen!”.

Freddy Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon fanno la loro comparsa. Quelli che seguono sono considerati i 20 minuti migliori dell’intero concerto. Di più, i 20 minuti migliori della storia di tutti i concerti. I Queen arrivano al Live Aid dopo un periodo di difficoltà, sia personali che professionali. Sembra incredibile dirlo dopo aver visto la loro performance, ma inizialmente non erano interessati a prendere parte alla manifestazione. All’ultimo cambiano idea. Quando si trovano sul palco attaccano con i classici. Bohemian Rhapsody, Radio Gaga, Hammer to Fall, Crazy Little Thing Called Love, We Will Rock You e We Are The Champions. Alla fine dell’esibizione, la band è rinata. E Mercury è diventato immortale.

Noi abbiamo suonato bene, ma Freddie era oltre e ha portato tutto ad un altro livello. (Brian May)

Certo, Wembley ed il JFK sono due facce dello stesso concerto, e fare una classifica tra le due manifestazioni non avrebbe molto senso. Eppure, dopo che i Queen lasciano il palco, sotto sotto sono in molti a pensare che lo spettacolo migliore sia in casa inglese. Ma i cugini d’oltreoceano hanno ancora un asso nella manica.

A Wembley l’ultima esibizione è quella di Bob Geldof con la Band Aid, alle 21:57. A Filadelfia, magia dei fusi orari, si continua a suonare per altre sei ore. Così, mentre nel Regno Unito sono le 03:55 del 14 luglio, il palco del JFK inizia a farsi affollato per l’ultima canzone. Quattro mesi prima, il 7 marzo, Michael Jackson e Lionel Richie avevano pubblicato una canzone da loro scritta (e cantata insieme ad altri 45 artisti!) che aveva scalato le classifiche mondiali. Il 13 luglio, sul palco del JFK, We Are The World viene per la prima volta cantata in live. Nonostante l’assenza di alcuni dei cantanti originali (come Jackson e Bruce Springsteen), è un trionfo. E fregia anche il palco americano del suo momento d’oro nella storia della musica.

La sera del dì di festa

Live Aid si conclude. Lo dicevamo, è stato il sogno di una generazione. Dovremmo forse essere più precisi. È stato un sogno ad occhi aperti, immenso e collettivo. Per un giorno intero, il 13 luglio dell’85, tutto il mondo si è fermato ad ascoltare settanta microfoni che cantavano di pace e di quanto fosse giusto sfamare gli affamati. Sembra veramente che sia stato un grande sogno, sfumato poi il mattino dopo. Il 14 luglio il mondo torna a muoversi e si dimentica in fretta di Filadelfia e di Wembley. La vita torna alla normalità: ogni tanto un giornale parla di come qualcuno dei 150 milioni di dollari raccolti dal Live Aid sia finito a finanziare governi corrotti, oppure riporta le facili polemiche di chi quel concerto non lo considera altro che una passerella di milionari interessati a vendere dischi e la propria immagine.

Passa il tempo, e invecchia un po’ anche l’immagine idealizzata di quella giornata. Però ogni tanto è bello ricordare quei settanta microfoni e quelle quattro miliardi di orecchie guardarsi, e sorridersi a vicenda.

Riccardo Longhi

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